venerdì 31 maggio 2013

Napo II dimentica Napo I. E senza autocritica

Grillo tuona contro l'ottuagenario scongelato dal popolo del web (cioé da lui stesso) e scopre che proprio i grillini non avevao capito che la candidatura di Rodotà al Quirinale era solo una mossa per spiazzare il Pd. E visto che neppure il Pd aveva capito il gioco, è evidente che gli eletti del gruppo di Epitaffio Epifani e del Movimento stelle cadenti hanno molte affinità. Ma un altro vecchio è tornato sulla scena: la Cara Salma si è scossa e si è ricordata di quella cosa strana, la Costituzione. Fondata sul Lavoro, gli hanno detto. E lui, la Cara Salma, ha immediatamente cancellato il ricordo delle firma apposte alla riforma Fornero. Una legge demenziale, votata da incompetenti e firmata da.. da chi? Napo I, ma è meglio far finta di nulla. Però, in un impeto di giovanilismo fuori tempo, Napo II si lancia anche in accuse contro chi ha colto in ritardo il dilagare della disoccupazione in tutto l'Occidente. Che strano, par di ricordare che Napo I fosse sempre lì a giustificare gli eurodeficienti che obbligavano l'Italia ai compiti a casa. Quei compiti che prevedevano la macelleria sociale applicata dal grigiocrate Monti e dall'incompetecnica Fornero. Ma Napo II quei particolari l'ha dimenticati. Mica ha sbagliato lui, quando ha taciuto di fronte alla Fornero blaterante sul fatto che il lavoro non fosse un diritto. Anche allora la Costituzione affermava il contrario, ma Napo I era distratto. Ora, nel ruolo di Cara Salma, è stato risvegliato e illuminato. Oddio, un poco di autocritica non farebbe male. Qualche scusa rivolta alle famiglie del centinaio di suicidi non sarebbe proprio fuori luogo. Ma loro - Napo II, Fornero, Monti - l'autocritica non sanno cosa sia. Certo, i professori che sbagliano tutto non sono abituati a scusarsi né, tantomeno, ad ammettere di aver sbagliato. Loro bocciano, all'esame, gli studenti che commettono errori molto ma molto meno gravi. Ma i prof son sempre giovani e belli, e pure capaci ed intelligenti. La Cara Salma, però, dovrebbe ricordarsele bene le autocritiche. Non di quando esaltava l'eroica offensiva dell'alleato germanico contro la Russia Sovietica. No, qualche anno dopo, quando esaltava l'offensiva della grande patria Russia (Sovietica) contro l'Ungheria. Perché, nel frattempo, il partito del Napo Zero era alle prese con quel simpaticone georgiano, quel brillante Stalin che dell'autocritica (imposta agli altri) aveva fatto un pilastro del proprio potere. Ma si sa, gli anni passano e la mente seleziona i ricordi. E sono gli avvenimenti più vicini ad essere dimenticati con maggior facilità. Così la Cara Salma ha rimosso le firme ai provvedimenti di macelleria sociale del governo Monti. Così oggi può lanciarsi in richiami sul diritto al lavoro. Tanto l'Italia del gregge non ha il coraggio di far notare l'inopportunità di questi atteggiamenti.

mercoledì 29 maggio 2013

Italiani: un gregge pauroso o delusi da Grillo?

Saragat aveva accusato il destino cinico e baro. Grillo ha dato la colpa agli italiani per il disastro elettorale. E tutti ad ironizzare sulla nuova battuta del comico genovese. Che, evidentemente, non sa cosa sia l'autocritica, ma che non ha tutti i torti. In fondo le elezioni sono determinate dagli elettori, dunque dagli italiani. E se gli italiani, dopo secoli e secoli da gregge, continuano a preferire il ruolo di pecora rispetto a quello del leone, dell'aquila o del lupo, la colpa è innanzi tutto individuale. Tutti a protestare, nelle code agli sportelli o mentre aspettano il turno alla cassa del supermercato, ma poi tutti a casa perché "tanto son tutti uguali", "tanto rubano tutti", "tanto non cambia niente". E allora tutti ad applaudire il governo Alfetta perché ha ottenuto la fine della procedura di eccesso di deficit. E tutti distratti di fronte alle nuove imposizioni europee che non permetteranno di migliorare la situazione. Colpa di Grillo anche questo? Lo si è visto nel calcio, con misure indecenti decise dai vertici del business pallonaro senza che vichinghi, guerrieri, gruppi combattenti di ogni curva, ultras e affini provassero ad ipotizzare uno sciopero del tifo per mettere in ginocchio un sistema marcio e legato solo ai soldi. Dichiarazioni fortissime: "voglio vivere e morire da ultras", e poi tutti in coda ad acquistare il biglietto e ad applaudire a comando dell'Uefa. Se questi sono i feroci ultras, cosa ci si può aspettare da pacifici pensionati o da timorosi licenziandi? Ciò non toglie che Grillo abbia commesso errori colossali. Decidendo di non partecipare a nulla, di non incidere sulle scelte nazionali. Le proposte sono state talmente ininfluenti sulla realtà da essere dimenticate dagli elettori. Niente soldi ai partiti? Va bene, ma non cambia nulla in pratica per l'economia italiana. E poi, l'errore fondamentale: una squadra di eletti in Parlamento e di candidati alle amministrative di nessuno spessore. Va bene, li ha scelti la rete. Ma questo dimostra solo la debolezza della rete stessa. Impreparati, senza grandi idee, senza radicamento, senza nulla. Davvero qualcuno potrebbe sognare di avere a che fare con un sindaco di così basso profilo? Con un assessore che non sa da dove cominciare. Vero che il Pdl ha creato assessori alla Cultura che manco sapevano cosa fosse, questa Qultura o Kultura. Ma non è una grande giustificazione per chi si candida a rappresentare il nuovo. E allora gli italiani arrabbiati son rimasti a casa, non sentendosi rappresentati. E gli altri hanno votato come al solito. Ma con qualche indicazione interessante. I Fardelli d'Italia, ad esempio, sono cresciuti molto laddove han lavorato molto. E sono rimasti a livelli infimi laddove (Ivrea, tanto per fare un nome) l'idea della politica è quella di fare palloncini a favore della Tav. E sono interessanti i dati di liste civiche, nuove, con candidati credibili. Pergine Valsugana è solo uno dei tanti esempi da seguire.

martedì 28 maggio 2013

Tafazzismo, malattia infantile del centrodestra

C'era una volta Tafazzi, il personaggio che si martellava il bassoventre. C'è ora il centrodestra, che cerca ogni soluzione pur di farsi del male. E che, di fronte al disastro dell'ultima tornata elettorale, finge di gioire perché ai grillini è andata peggio. Il che è vero, ma chissenefrega? La fuga degli elettori dal Movimento 5 stelle è evidente, come è evidente che la delusione provocata dall'inettitudine dei parlamentari grillini si è trasformata nella diserzione delle urne, non in un voto al centrosinistra o al centrodestra. E tra i sempre più ridotti ranghi degli elettori, a vincere è stato il Pd. Nonostante i sondaggi strabilianti che premiavano il Pdl, che davano la Lega in recupero. Nada de nada. Allora, può anche darsi che, per una volta, i sondaggisti non abbiano sbagliato troppo. Nel senso che i loro dati si riferiscono alla politica nazionale. In altri termini a Berlu e all'epitaffio Epifani. Mentre questa volta si votava per sindaci e, in  Valle d'Aosta, per i consiglieri regionali. Ma è comunque evidente che il maleodorante inciucio non piace agli elettori del centrodestra. Berlu prometteva la grande svolta, le riforme choc per l'economia. E ci siamo ritrovati con un parziale rinvio dell'Imu. Che svolta, che choc! Ma dove la sindrome tafazziana emerge in tutto il suo splendore è sul territorio. Si deve candidare qualcuno? Scegliamo il peggio del peggio. Aledanno poteva aspirare a un risultato migliore dopo la sua gestione di Roma? Forse ci poteva  credere solo Gasparri. E altrove non è certo andata meglio. Mica solo per il Pdl. Dov'è finita la Lega, in Veneto? Dove il grande entusiasmo che avrebbe suscitato la segreteria Maroni? Nella sconfitta di Vicenza o nel modesto risultato di Treviso? Ma, per tornare al Pdl, l'emblema del tafazzismo è forse la Valle d'Aosta. Alle precedenti regionali il partito di Berlu aveva conquistato 4 consiglieri: questa volta 0, sì, proprio zero. Buttati fuori. Con un modestissimo risultato anche per la neonata lista sorta nell'area. Il centrodestra, in Valle, non esiste più. E l'Udc, che si era alleata con Fédération autonomiste, ha contribuito alla scomparsa del movimento in cui era confluita. Zero anche per loro. E' andata meglio alla Lega, assorbita da Stella Alpina che ha fatto 5 consiglieri. Ma qualcuno si è chiesto il perché del disastro? Qualcuno se l'è chiesto a Pisa, a Sondrio, a Massa, a Imperia, a Viterbo? O nei centri minori dove i risultati sono stati i medesimi? Ogni volta i vertici del centrodestra spiegano che il voto locale è diverso da quello nazionale. Vero. Perché, a livello di Comuni e Regioni, si premiano i candidati più credibili, più radicati. Possibile che Pdl, Lega e movimenti vari non riescano mai ad individuare un candidato credibile, radicato, apprezzato dai propri concittadini? Certo, ci sono state eccezioni. Ma proprio perché le eccezioni ci sono state, vuol dire che non sarebbe impossibile renderle la norma e non una rarità. Ma allora, chi sono i Tafazzi che preferiscono candidare gli incapaci? Gli incompetenti? I peggiori della banda? E al di fuori dei partiti storici, chi sono i Tafazzi che non sanno approfittare dell'immenso bacino di elettori delusi? Quegli elettori che avevano scelto Grillo e che ora han preferito restare a casa? Lo spazio per creare qualcosa di nuovo è immenso. Probabilmente le capacità sono molto più limitate.

lunedì 27 maggio 2013

La vera storia dell'Ilva. Da censurati.it

Padroni di niente, servi di nessuno.
By Kezia Scanu.

Premessa: Veleni d’Italia è una nuova rubrica che vuole dare voce a chi vive a ridosso di fonti di veleni ma che non rappresenta nessun colore, per questo non ha voce. La nostra prima tappa è l’Ilva di Taranto. Questo è l’estratto da un piccolo ebook che stiamo preparando, un’intervista ad un tarantino che è voluto rimanere anonimo. Un cittadino normale, non operaio ILVA ma che ne riconosce l’importanza economica e che però ne riconosce la pericolosità per la sua salute. Un cittadino lontano da bandiere e manifestazioni, come lo sono tanti. Ecco a voi le sue parole.

1) Cos’è per un cittadino di Taranto l’Ilva?
Anzitutto ringrazio lei e la testata per cui scrive, poiché dopo circa dieci mesi di battage mediatico su Taranto e Ilva qualcuno si è ricordato di intervistare non un politico, un sindacalista, un lacché, bensì un cittadino, uno dei tanti che (pur non lavorando in Ilva) vivono quotidianamente l’esperienza fisicamente e psicologicamente lacerante del Siderurgico leggendo, studiando, informandosi, riflettendo e partecipando, come singolo inquadrato non in gruppi e associazioni bensì nella comunità cittadina, alle attività di lotta. Non senza, me lo lasci dire, un certo orgoglio che vedo risvegliarsi un po’ ovunque. “Cos’è per un cittadino di Taranto l’Ilva”: una domanda importante, difficile… Ilva è la Grande Madre dalle cui mammelle generose Taranto, non senza avidità, succhia latte dal lontano 1961, data di avviamento del tubificio, prima unità operante del IV Polo Siderurgico voluto, in un momento di grande sviluppo industriale per il Paese, in un’area legata, dall’Unità d’Italia in poi, all’industria di Stato. Ma facciamo, se me lo consente, un po’ di storia. Tre sono stati, negli ultimi 150 anni, i poli dello sviluppo economico tarantino (escludendo la pesca e il commercio, naturalmente, dato che parliamo di sviluppo industriale): Marina Militare, cantieri navali, produzione dell’acciaio. Lo Stabilimento, ancora oggi dai tarantini così chiamato e scritto con la maiuscola, quasi in segno di deferenza, viene ufficialmente inaugurato il 10 aprile 1965 dall’allora Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Il quale, nel discorso di inaugurazione (vibrante amor di Patria da ogni poro…), rammenta “il lavoro paziente, quotidiano, anonimo, meritorio e prezioso, di migliaia di operai, trentacinque dei quali, anzi, nel corso dei lavori, hanno immolato in quest’opera la loro vita…”. Già, perché la storia dei morti dell’Ilva (allora Italsider) parte da lontano. Trentacinque decessi già solo in fase di realizzazione degli impianti. Il motivo è facilmente ravvisabile, a mio sommesso avviso e per usare un’espressione tanto ignobile quanto in voga oggigiorno, in un “materiale umano” espressione di un tessuto sociale che di industria, tolti i cantieri navali, sapeva poco e niente. Agricoltori e pescatori perlopiù, come tali privi della dovuta formazione in un momento storico della Repubblica in cui, dopo la grande esperienza giuslavorista degli Anni ’20-‘40, le tutele per i lavoratori in termini di sicurezza erano alquanto circoscritte. Ad oggi, la scia di sangue non si è fermata. Naturalmente Ilva non è solo sinonimo di morte, sia essa dovuta ad incidenti sul lavoro o a malattie professionali con un’incidenza spaventosa sulla popolazione (ma per quest’ultimo punto si dovrebbe parlare non solo di Ilva, ma anche di Eni, Cementir, Marina Militare…). Il Siderurgico ha portato a Taranto, unica città di immigrazione in un Sud che saltava sui treni diretti alla Fiat di Torino, un benessere economico che non intendo mettere in discussione. Ma si è trattato, nonostante tutto, di un benessere effimero. Il dramma dell’allora Italsider fu quello di fagocitare, per logiche facilmente intuibili nei rapporti tra colossi e pigmei economici, ogni possibilità di sviluppo in senso alternativo alla produzione di acciaio. Già il Sud grosso modo non conosce, di per sé, una radicata cultura dell’imprenditorialità, perlomeno non secondo i canoni cui ci ha abituati il poderoso tessuto imprenditoriale del Nord Italia: si immagini cosa può accadere in una città che conosce esclusivamente l’impresa di Stato. L’unica possibilità, in tal senso, consiste nell’indotto: un anello di realtà imprenditoriali vassalle del colosso dell’acciaio. Fuori da ciò, pressoché nulla. Il discorso è complesso e non può chiaramente esaurirsi in un braccio di ferro tra Siderurgico e città, ma in linea di massima rende l’idea. Dunque Ilva è, per Taranto, la grande speranza di un balzo in avanti, forse anche (almeno per gli intellettuali e, forse, per una tipologia oramai semi-inesistente di “operaio soldato”, in parte esistita agli albori dell’industria dell’acciaio e per la quale il senso del dovere personale era talora congruente con il sentimento patrio) il sogno del contare qualcosa sullo scacchiere nazionale ed europeo: peccato che nessuno, fino al 26 luglio scorso, avesse raccontato alla cittadinanza, figlia coccolata e al contempo vittima dell’acciaio, questa storia fatta di immortali principi di progresso e di importanza capitale della città per l’intera nazione.

2) Abbiamo assistito in questi mesi al ricatto che i tarantini hanno dovuto subire, trovandosi a scegliere tra la salute ed il lavoro. Abbiamo anche assistito, grazie ai tg, a cortei di persone che chiedevano solo di lavorare. Rispecchiano la situazione di Taranto? Veramente Taranto è disposta a “vendere” la propria salute?
Il ricatto viene da lontano e si articola primariamente nella più odiosa delle forme: quella del ricatto occupazionale, che ha preso piede, nello specifico, a seguito dell’intrusione del privato nell’industria locale dell’acciaio, dovuta allo splendido dono fatto dallo Stato alla famiglia Riva. Correva l’anno 1992, annus terribilis per l’Italia tutta: nell’arco di 365 giorni fu avviato lo smembramento del Siderurgico nel quadro della ristrutturazione dell’IRI in chiave di privatizzazione dell’industria di Stato. Era il 22 luglio 1993 quando il CdA di IRI S.p.a., presieduto da tal Romano Prodi, autorizzava la società Ilva (caposettore per il comparto della siderurgia pubblica) ad avviare un iter di scissione in due tronconi principali: laminati piani comuni (Taranto-Novi Ligure) e laminati speciali (Terni). C’era già stato il raddoppio degli impianti, con l’occupazione schizzata al numero impressionante di oltre 23.000 dipendenti (parliamo del solo stabilimento di Taranto) e il nuovo amministratore delegato Ilva, il giapponese Nakamura, iniziava a sbandierare la ricetta nipponica del binomio “risanamento-privatizzazione”, anche nell’ottica di fronteggiare un probabile contenzioso comunitario che da qualche tempo era nell’aria. Il contenzioso, puntuale, arrivò: la CEE aveva fatto una stima relativa a una sovracapacità produttiva internazionale di acciaio pari a circa 30 milioni di tonnellate, un eccesso di produzione il cui ridimensionamento, in via teorica, sarebbe costato un olocausto di circa 50.000 posti di lavoro del settore siderurgico in tutta Europa, di cui circa 14.000 solo in Italia. A ciò si aggiunga che l’IRI doveva, all’industria siderurgica nazionale in crisi, circa 3.000 miliardi di lire a titolo di rimborsi fiscali, ciò che avrebbe rappresentato una indubbia boccata di ossigeno per Ilva S.p.a. Questo il quadro generale, ai tempi: sovracapacità produttiva a livello internazionale, mancanza di liquidità del settore siderurgico nazionale, migliaia di posti di lavoro a rischio. Sorvolando sui dettagli, per ovvie ragioni di spazio, giungiamo al punto di rottura: l’ombrello pubblico si ritira e Ilva S.p.a. subisce il piano di privatizzazione avviato con la sistematica distruzione di quel capolavoro che fu l’Istituto per la Ricostruzione Industriale, ad opera (repetita iuvant) anche di Romano Prodi. È il 1995: l’1 maggio, data significativa che sembra voler preannunciare le tensioni dei decenni successivi, il Gruppo Riva acquista lo stabilimento Ilva di Taranto con circa 11.800 unità lavorative effettive. Ma il bello è che lo acquista a prezzi stracciati, pressoché un regalo. Gianni Dragoni, in “Ilva. Il padrone delle ferriere”, ha sintetizzato al meglio quanto accaduto: “Per vendere l’ex Italsider di Taranto, nel 1993, il gruppo Iri guidato da Romano Prodi crea una nuova società, l’Ilva Laminati piani, ripulita dalla zavorra dei debiti, circa 7000 miliardi di vecchie lire che restano nella vecchia Ilva messa in liquidazione alla fine del 1993. In pratica questo è il modello della bad company, che verrà replicato nel 2008 dal governo Berlusconi con la divisione in due di Alitalia. All’Ilva Riva entra in possesso di un gruppo con impianti nuovi che in seguito al boom dei prezzi produce utili al ritmo di 100 miliardi di lire al mese: è il terzo produttore in Europa di laminati piani, dietro giganti quali la francese Usinor Sacilor e l’inglese British Steel. Per tutto questo Riva paga un prezzo di 1460 miliardi di lire «salvo conguaglio» stabilisce il contratto messo a punto dopo un serrato braccio di ferro con lo Stato venditore rappresentato dall’Iri, dove nel frattempo è tornato come presidente Michele Tedeschi. Dentro l’Ilva ci sono anche debiti finanziari netti per 1500 miliardi di lire, un indebitamento basso rispetto alle dimensioni della società, e il fatturato è di quasi 9000 miliardi di lire. Con l’acquisizione il gruppo Riva triplica la produzione e quadruplica il giro d’affari a circa 11.500 miliardi. «L’età del ferro non è mai finita» dice euforico l’industriale. In quel momento l’Ilva genera profitti per circa 100 miliardi di lire al mese, ha circa 17.300 dipendenti, gli impianti principali sono a Taranto, Novi Ligure e Genova. Oltre agli interventi sull’occupazione, tra riduzione dell’organico e le manovre che abbiamo visto per piegare chi resiste, come l’isolamento nella palazzina Laf, lancia un’offensiva contro l’Iri chiedendo uno sconto di circa 800 miliardi, invocando soprattutto problemi ambientali, cioè la necessità di adeguare gli impianti con investimenti nell’ecologia per ridurre l’inquinamento. In questo braccio di ferro, a metà del 1996 Riva sospende anche il pagamento del «conguaglio forfettario» di 228,66 miliardi dovuto all’Iri, secondo il contratto, per i profitti accumulati nei primi 98 giorni del 1995, quando la società era ancora dello Stato, utili rimasti però dentro l’azienda privatizzata. La controversia è affidata a un collegio arbitrale composto da tre giuristi. Riva sceglie come proprio arbitro Guido Rossi, il professore, ex senatore della Sinistra indipendente e già presidente della Consob. L’Iri designa Gustavo Visentini, figlio del famoso ex ministro delle Finanze Bruno Visentini. Il presidente del collegio è un avvocato milanese esperto di diritto penale societario, il professor Alberto Crespi. Il verdetto arbitrale del 2000 stabilisce che Riva deve pagare poco più di 180 miliardi di lire: il prezzo complessivo pagato per l’Ilva sale così dai 1460 miliardi «salvo conguaglio» stabiliti nel contratto a 1649 miliardi di lire, circa 852 milioni di euro. In apparenza l’imprenditore viene «condannato» a pagare, dunque è perdente nell’arbitrato. Il verdetto in realtà gli è favorevole, anche se non viene accolta la sua richiesta di uno sconto di 800 miliardi che aveva suscitato scalpore. E l’Iri, dove il direttore generale è Pietro Ciucci, attuale presidente dell’Anas e amministratore delegato della società Stretto di Messina, resta con un palmo di naso.” Venendo alla seconda parte della domanda, particolarmente impegnativa… Vede, sulla bilancia ci sono due piatti: su uno viene posto l’interesse strategico nazionale alla produzione di acciaio, principalmente necessario per la lavorazione finale presso altri stabilimenti del Gruppo Riva; sull’altro vengono poste le vite di 190.000 persone. C’è una enorme paura nell’aria. Il tarantino medio, per le ragioni sopra esposte, non riesce a concepire una città senza Siderurgico: è quasi come ventilare a un senese l’ipotesi di una chiusura definitiva del Monte dei Paschi. Una parte di Taranto, ed è dura da dire, non è disposta a rischiare, paventando persino il rischio di un tumore come preferibile alla certezza della fame e dell’emigrazione. Ma si deve anche contestualizzare: come si fa a parlare, nel 2013, di indispensabilità dell’industria siderurgica (di per sé già in crisi) per la città di Taranto, quando dei circa 12.000 lavoratori attualmente impiegati presso lo stabilimento più o meno 1/4 sono tarantini con residenza? A ciò si aggiunga che questa è una città che annovera nel suo parterre des rois non solo Ilva, ma anche Cementir, Eni, Marina Militare (che ha le sue buone responsabilità tanto in ordine alla disintegrazione dell’ecosistema, quanto con riguardo alla sottrazione di gran parte del territorio, inutilmente demanializzata ancora oggi), e che pure ha un tasso di disoccupazione pari al 40% e vede spuntare come funghi bet points e casinò alla buona ad ogni angolo di strada: ma questo lo sanno i pontefici del “settore strategico nazionale” che con toni otto-novecenteschi più consoni alla Corea del Nord straparlano (a distanza di sicurezza) di quella che, ai nostri stessi occhi, appare sempre più una sorta di enclave in lotta contro il mondo – e ciò che più conta, perché fa male, in lotta contro se stessa?

3) Cosa rende l’Ilva così tossica e pericolosa?
Anche questa è storia che nasce da lontano, dalla gestione di Stato come Italsider (IV Polo Siderurgico, attivo da mezzo secolo). Lo Stato ha enormi responsabilità, che non vanno taciute; ma è altresì innegabile che il procedimento in corso per disastro ambientale (ex multis) vede come imputati i Riva, avendo ad oggetto la gestione privata degli ultimi 18 anni. Da un punto di vista strettamente “ambientale”, lo stabilimento è estremamente pericoloso per le problematiche relative alla diffusione incontrollata di polveri sottili, diossina (sostanza che lascia dietro di sé una impronta idonea a ricondurre al diffusore), PCB, mercurio, piombo e molte altre amenità. Secondo i periti incaricati dalla Procura di Taranto, l’esposizione continuata agli inquinanti dell’atmosfera emessi dallo Stabilimento ha causato e causa a tutt’oggi nella popolazione “fenomeni degenerativi di apparati diversi dell’organismo umano che si traducono in eventi di malattia e di morte”, con una stima approssimativa di trenta decessi all’anno. Alcuni dati di un certo interesse che fotografano, sempre secondo le perizie disposte dalla Procura ed accolte dal GIP Todisco, la situazione ambientale ed epidemiologica alla data del 26 luglio 2012: - 386 decessi (la famosa “minchiata” con cui si sciacquava la bocca il latitante Fabio Riva) e 237 casi di tumore maligno con diagnosi da ricovero ospedaliero (18 casi per anno) attribuibili alle emissioni industriali (pag. 219 perizia epidemiologica); - 247 eventi coronarici con ricorso al ricovero (19 per anno) attribuiti alle emissioni industriali (ibid.); - 937 casi di ricovero ospedaliero per malattie respiratorie (74 per anno) (in gran parte tra i bambini) attribuiti alle emissioni industriali (ibid.); - 17 casi di tumore maligno tra i bambini con diagnosi da ricovero ospedaliero attribuibili alle emissioni industriali (pag. 220, stessa perizia). Di recente sono state avviate indagini sanitarie nel comprensorio di Statte, aventi ad oggetto il monitoraggio dei livelli di piombo nel sangue dei cittadini. Non parliamo dell’incidenza di specifiche tipologie tumorali, di per sé relativamente rare (penso all’endometriosi), o del sospetto di uno sviluppo di tumori del sangue per via ereditaria, di tumori alla prostata che colpiscono bambini di pochi mesi, o ancora di casi di malformazione alla nascita verificatisi sporadicamente in determinati quartieri. Tornando alle perizie giudiziarie, qualche dato sulle emissioni. Nel 2010 lo stabilimento tarantino ha emesso dai propri camini oltre 4 mila tonnellate di polveri, 11 mila tonnellate di diossido di azoto e 11 mila e 300 tonnellate di anidride solforosa (oltre a: 7 tonnellate di acido cloridrico; 1 tonnellata e 300 chili di benzene; 338,5 chili di IPA; 52,5 grammi di benzo(a)pirene; 14,9 grammi di composti organici dibenzo-p-diossine e policlorodibenzofurani (PCDD/F). (pag. 517 perizia chimica). A ciò si aggiunga che i livelli di diossina e PCB rinvenuti negli animali abbattuti e accertati nei terreni circostanti l’area industriale di Taranto sono riconducibili alle emissioni di fumi e polveri dello stabilimento Ilva di Taranto (pag. 521 perizia chimica). Si consideri che parliamo di migliaia e migliaia di capi abbattuti, provvedimento drastico cui ha fatto seguito il divieto di pascolo ex art. 2, ordinanza Regione Puglia 176/2010, che recita: “[…] divieto di pascolo sui terreni non aventi destinazione agricola ricadenti entro un raggio di non meno di 20 km attorno all’ area industriale di Taranto”: ciò ha comportato la disintegrazione e l’abbandono all’oblio di piccole e medie imprese di allevatori e produttori alimentari per i quali, con tutta evidenza, non valgono le sacrosante omelie sul “lavoro bene primario” cantate ogni due per tre per i lavoratori dello stabilimento. La stessa Ilva quantifica, inoltre, le sostanze non convogliate emesse dai suoi stabilimenti in 2148 tonnellate di polveri; 8800 chili di IPA; 15 tonnellate e 400 chili di benzene; 130 tonnellate di acido solfidrico; 64 tonnellate di anidride solforosa e 467 tonnellate e 700 chili di Composti Organici Volatili (pag. 528, stessa perizia). Va altresì considerata la fuoriuscita (quantificabile in 544 tonnellate all’anno di polveri) di gas e nubi rossastre dagli impianti (c.d. slopping), fenomeno ampiamente documentato dai periti chimici e dai carabinieri del NOE di Lecce. A ciò si aggiunga, last but not least, la diffusione incontrollata di polveri sottili dai Parchi Minerali, enormi cumuli di polveri stockate in assenza di qualsivoglia reale misure di sicurezza che non sia la riduzione in altezza e la risibile bagnatura e filmatura degli stessi con acqua e gel, cui va sommata l’ultima geniale trovata dell’azienda per evitare di affrontare il problema nell’unico modo possibile (vale a dire la costosissima operazione consistente nella traslazione e copertura dei Parchi, con annesso rifacimento e messa a norma dei nastri trasportatori dai docks agli impianti): la fantomatica rete di contenimento, un enorme acchiappamosche, poderoso ritrovato della tecnica (nelle intenzioni alto 27 metri, nella pratica di altezza a occhio e croce pari a circa 10-15 metri) idoneo, secondo le dichiarazioni rese dall’azienda stessa, a “contenere la diffusione di polveri pesanti dalla zona dei parchi minerali verso l’esterno, soprattutto verso il quartiere Tamburi. La rete, con la sua porosità, oltre che a rallentare la velocità del vento, effettua anche un’azione di intrappolamento delle polveri.” Peccato che il problema reale non sia tanto rappresentato dalle polveri pesanti, ivi citate, quanto da quelle sottili, che questo possente parto della scienza non sarebbe in alcun modo capace di risolvere. Che ciò sia un problema, e non di poco conto, lo dimostra una semplice passeggiata nel contiguo rione Tamburi: quel rione, così simile alla Manchester descritta da Engels, che l’ineffabile ex-ministro Clini e l’altrettanto ineffabile ministro Lorenzin prospettano sic et simpliciter di spostare… Bene, qualora vi si recasse non farebbe fatica a constatare, oltre alla ‘pesantezza’ dell’aria, anche i cromatismi, del tutto particolari, con un predominio del rosa-rosso (a Taranto vantiamo, tra le altre cose, l’unico cimitero rosa al mondo: questo perché la gente, oramai, non perde tempo e tinteggia le cappelle direttamente di rosa, ritenendo misura inutile l’utilizzo di vernice bianca, posto che entro pochi mesi le polveri, depositandosi sulle tombe, le fanno virare nuovamente su una tonalità rosée-rouge a metà strada tra il confetto e le big babol). Lo constata semplicemente dando un’occhiata ai guard-rails a bordo strada, che ogni tanto il Comune di Taranto, sempre solerte in queste cose, provvede a sostituire a fini di make-up, ma soprattutto limitandosi a un gesto semplicissimo, cioè a dire passando un dito su una qualunque superficie, sia essa muro, balcone, ringhiera o persino tavolo da cucina: noterà, non senza sorpresa, che le rimarrà una traccia di polvere di colore nero-rossastro sul polpastrello. Immagini che cosa portano dentro di sé, nell’organismo, gli abitanti dei Tamburi. Ciononostante, posso assicurarle che a fronte di tutto questo è possibilissimo, ancora oggi, ascoltare discorsi allucinanti di persone che minimizzano (se proprio non escludono alla radice) le conseguenze di tale esposizione alle polveri o che, addirittura, decantano la bellezza plastica ed eroica di quei bambini che, un tempo, ignari del pericolo si lanciavano con improvvisati slittini dai cumuli dei Parchi, allora non sottoposti a vigilanza stringente come quella attuale…

4) Seguendo la parabola dell’informazione, sembra quasi che l’Ilva sia un problema recente di Taranto. Da quanto invece i cittadini riscontravano questo problema? Quando si è iniziato a puntare il dito contro l’Ilva e perchè?
Per dare il polso della situazione, evidenziando le menzogne (anche storiche) di una certa stampa vergognosamente appiattita su posizioni filo-governative, basti sapere che la prima condanna di un dirigente dell’allora Italsider, di proprietà statale, risale al lontano 1982. Il problema non è tanto il fatto che si tratti o meno di lotte recenti (cosa non vera, poiché una più o meno vaga percezione del pericolo rappresentato dal Siderurgico per l’ambiente e la salute si aveva già negli Anni ’70 del secolo scorso), quanto la mancanza di informazione da una parte – per ovvie lacune scientifiche e per voluta distorsione della realtà da parte dei soggetti interessati -, il vuoto legislativo in materia di reati ambientali dall’altra, obiettivo conseguito da poco ed in costante evoluzione. Ora, molto semplicemente, dopo decenni di insabbiamenti, di mazzette, di strizzate d’occhio ed elemosine alla città la bolla è esplosa e gli oligarchi dell’industria pesante e i soloni della “strategia nazionale” a oltranza dovranno fare i conti con una città che non è più disposta a morire in silenzio – semmai, se proprio deve crepare, lo farà urlando.

5) Come si è arrivati allo stallo popolazione contro i Riva?
A seguito del costante, reiterato, sfacciato muro contro muro che il privato ha deliberatamente causato, avallato e mantenuto con protervia lungo 18 anni di redditizia attività sul territorio e sulla pelle della gente. Un confronto fatto di sordità, di mancata volontà di comunicazione, di una gestione improntata a logiche che non è esagerato definire neocolonialistiche (sappia, tuttavia, che il mio non è il solito piagnisteo “meridionale” sul “Nord assassino e colonizzatore”, le cose essendo un tantino più complesse: di conseguenza, gli eventuali “separatisti” neo-borbonici ed altre lunghe barbe stanche e anacronistiche che per ventura leggono questa intervista chetino le proprie voglie e i relativi entusiasmi), caratterizzata, almeno stando alle attuali risultanze procedimentali, da un’amministrazione dello Stabilimento a dir poco “libera”. Si considerino, ad esempio, le modalità con cui si estrinsecavano, secondo il teorema dell’accusa, i rapporti con determinati pezzi del mosaico “cosa pubblica”, ma anche la gestione a dir poco estrosa dei rapporti con i lavoratori, di cui la nota vicenda della palazzina LAF, la manifestazione del 30 marzo 2012 foraggiata dall’azienda (con tanto di striscioni professionali e kit trombetta-panino pro capite) e i blocchi stradali strumentali alla medesima costituiscono solo alcuni esempi paradigmatici e macroscopici.

6) La Consulta ha deciso che la salva Ilva non è anticostituzionale, mentre il Tribunale di Taranto ed il GIP avevano sollevato 17 dubbi di anticostituzionalità. La decisione della Consulta arriva anche dopo accorati (ed a tratti disperati) appelli dalle mamme tarantine, soprattutto dalle madri di quei numerosi bambini malati di tumore, che hanno trovato spazio quasi esclusivamente sulle pagine internet. Come è stata accolta questa notizia tra la gente?
La mia sensazione è che sussista, anche in questo caso, uno spartiacque tra pro-Ilva e anti-Ilva e, nel mezzo, varie sfumature di grigio. A seconda dell’appartenenza ad uno o all’altro “blocco” la percezione della notizia è stata diversa. Lo schieramento ambientalista (cui non appartengo, come non appartengo ad alcuno schieramento che non sia quello del disgusto e del fronte cittadino, di quei cittadini – s’intende – che vogliono campare), composto di tante anime spesso in disaccordo tra loro, naturalmente non ha accolto positivamente il provvedimento della Consulta. Dall’altra parte abbiamo personaggi che, in base a curiose interpretazioni storico-politiche e persino ideologiche, od anche solo sulla scorta di personali preoccupazioni di ordine socio-economico (“che fine faremmo senza Ilva o anche senza la sola area a caldo?”), esultano e si ergono sul pulpito di chi, a conti fatti, intona il te deum del “ve l’avevo detto”. Nel mezzo, le onde degli indecisi, generalmente quelli che in un modo o nell’altro la prendono dove il sole non batte o perché nello stabilimento ci lavorano, pure intimamente lacerati tra il bisogno ineludibile di lavorare e la consapevolezza di avere parecchie chances di lasciarci la pelle, o perché temono che una chiusura o un ridimensionamento degli impianti e della loro capacità produttiva possano infliggere un colpo mortale alla già dissestata economia locale. Su tutto questo, è ovvio, gli oligarchi marciano tronfi e trionfanti, sia pure dietro le gabbie dorate dei domiciliari scontati in lussuosi appartamenti.

7) Il sindaco di Taranto ha indetto un referendum sull’Ilva, che sappiamo che ha avuto scarsa affluenza. Perchè? Cosa porterà o cosa non porterà a Taranto questo referendum?
Il referendum, come ampiamente prevedibile, non ha portato a nulla. A latere il mancato raggiungimento del quorum (sebbene il dato partecipativo, in sé, non sia trascurabile), già nel 2011 il TAR Lecce fu chiaro: il referendum per la chiusura è improponibile e non avrebbe alcun valore legale, il contenuto esula dalla competenza referendaria. Si è optato per un referendum consultivo, al fine di “dare un segnale”, “far sentire la voce della cittadinanza” e altre frasi fatte. Preciso di aver votato per una questione di coscienza, ma anche di essere pienamente consapevole di essermi trovato davanti a una scheda che rappresentava l’ennesimo inutile contentino elargito da un Comune (generalmente “non pervenuto”) alla popolazione dopo le grandi agitazioni dello scorso anno, culminate in dicembre con una manifestazione che vide scendere in piazza, in una città storicamente dormiente, qualcosa come 20-25 mila persone. A mio modesto parere referendum simili, privi di reali sbocchi pratici, servono esclusivamente a titillare le voglie democratiche della gente: e per quanto “dare un messaggio” sia cosa buona e giusta, abbiamo visto come sono andate a finire altre tornate elettorali di taglio omogeneo e con ben maggiori possibilità di attuazione. Se mi domanda un parere circa la strategia da adottare nelle forme di lotta la mia risposta è questa: studiare, conoscere la materia, discutere, dibattere, marciare. Sono dell’avviso (consapevole che la magistratura può e deve fare il suo nel proprio ambito) che la piazza pacifica sia l’unico motore del cambiamento possibile e che le dinamiche referendarie siano da relegare nel campo delle inutili illusioni, magari anche strumentali al mantenimento dello status quo.

8) C’è qualcosa che potrebbe salvare sia l’occupazione che la salute di Taranto? Qualcuno ha mai presentato soluzioni concrete – tipo cambio forni, filtri speciali o qualche nuova tecnologia – che potrebbe risolvere entrambi i problemi senza portare a dover scegliere tra la vita ed il futuro?
Sono state avanzate molte proposte in tal senso. Non sono un tecnico e non posso entrare nei dettagli per questioni di incompetenza, ma il dubbio che personalmente mi attanaglia è questo: è possibile bonificare senza fermare gli impianti? La soluzione individuata dall’Autorità giudiziaria si muoveva secondo lo schema della “pelle di leopardo”: blocco ragionato di determinati impianti a fini di risanamento, mentre gli altri impianti avrebbero dovuto marciare a regime ridotto onde non paralizzare del tutto la produzione. Niente: la guerra condotta a livello legislativo (c.d. Aia Clini), o meglio, a livello di quella decretazione d’urgenza cui il governo Monti ci ha ampiamente abituato, nonché a livello giudiziario a botte di ricorsi e opposizioni fino allo smacco della Consulta ha vanificato la portata di quei provvedimenti. La base di qualunque progetto di risanamento, per restare ancorati a tempistiche più recenti, è rinvenibile nelle oltre 400 prescrizioni contenute nelle perizie sopra citate, solo in parte accolte dalla “nuova AIA” (che tale non è, poiché si tratta di una riformulazione dell’AIA Prestigiacomo, probabile contropartita elargita dal governo Berlusconi a Riva per la partecipazione alla cordata salva-Alitalia). Chiariamoci: Ilva s.p.a. non è sempre rimasta inerte, ha anzi avviato, nell’ultimo decennio, alcune opere di risanamento e messa a norma. Ma si rimane sempre in superficie, sull’epidermide: il problema non è risolvibile dando un colpo al cerchio e uno alla botte, è di natura strutturale ed investe gli impianti in quanto tali. Faccio un esempio concreto: dopo il sequestro giudiziario Ilva s.p.a. ha fatto un gran clamore circa la solerzia con cui ha provveduto ad avviare i lavori di rifacimento dell’AFO/1 (Altoforno 1), tuttavia non preoccupandosi minimamente di comunicare al mondo che tale impianto era già parte, per così dire, di un “piano di ammortamento” a causa della sua vetustà. Ben diverso, e non a caso, è stato l’atteggiamento assunto nei confronti dello stop ingiunto dall’Autorità giudiziaria a fini di rifacimento dell’AFO/5, il più grande, il cuore pulsante dell’area a caldo… Capisce qual è il punto? Far quasi passare un ordine del giudice per iniziativa propria e adempierlo con solerzia, onde bombardare mediaticamente gli allocchi (perché di allocchi si tratta, se ci cascano) col messaggio dell’Ilva buona, dell’Ilva operosa, dell’Ilva che si attiva e collabora con la magistratura per il bene del territorio. Dell’Ilva che investe un miliardo in sicurezza e che organizza persino gli open days (frequentati perlopiù da famiglie di lavoratori dello stabilimento e organizzati secondo percorsi ben definiti)… Comprende bene che la percezione, costante oramai da anni, è quella di una mastodontica, inveterata e inossidabile prassi volta alla presa per il culo della cittadinanza destinataria di provvedimenti insulsi come il finanziamento all’oratorio X, l’istituzione del premio per la ‘cultura’ Y, l’inaugurazione delle fontanelle del cimitero (atto di benevolenza degno di rilievo e, senza alcun dubbio, di alto valore simbolico per la cittadinanza…) e via dicendo. Tutto questo mentre ai Tamburi un’ordinanza contingibile e urgente del Sindaco vieta ai bambini di giocare nelle aiuole (quali aiuole poi, mi domando?) e di toccare il terreno, contaminato da berillio, mercurio, nichel e cadmio; tutto questo, mentre al cimitero San Brunone vengono persino bloccate le sepolture, poiché smuovere il terreno comporta pericolo per la salute degli operatori cimiteriali e di chiunque vi assista. Ci rendiamo conto? Non possiamo nemmeno più seppellire i nostri morti! Li hanno ammazzati da vivi ed ora li ammazzano una seconda volta, da morti.

9) A livello di autorità locali, come rispondono alle domande della popolazione? Come hanno risposto al ricatto dei Riva sulla scelta tra salute e lavoro?
Agevolandolo. Mi spiace dirlo, ma salve poche eccezioni le autorità locali non hanno fatto nulla per la popolazione e le numerose contestazioni, non tutte strumentali a biechi fini “politici”, stanno lì a dimostrarlo. Viviamo la paradossale realtà di una città retta da un Sindaco stimato pediatra che ha dimenticato, con tutta evidenza, il giuramento di Ippocrate e che mentre ingolfa il territorio di rotonde e paletti contro il parcheggio selvaggio (le giuro che è uno spettacolo imbarazzante: il centro è oramai una selva di pali e archetti metallici variopinti) evita accuratamente di battere i pugni sul tavolo, fino a dimenticarsi di costituirsi parte civile in uno dei tanti rivoli dell’avventura giudiziaria Ilva… In tutto questo trova il tempo di autorizzare la costruzione di un ecomostro in una Città Vecchia che si cerca disperatamente di riqualificare (Giulio Carlo Argan, nel 1969, ebbe a dire: “La questione del centro storico tarantino è una questione di importanza nazionale e non soltanto locale. Si tratta di conservare un complesso monumentale che interessa tutto il Paese e alla cui conservazione tutto il Paese deve concorrere”), nonché di farsi fotografare con la pistola alla cintola come l’ultimo epigono della grande epopea del West. Sembra un film di Antonio Albanese, ma è la cruda realtà. La cosa pubblica, qui, è amministrata in maniera molto strana, riassumibile come segue: forti coi deboli, vili coi forti. Sempre. E allora ben venga la marea che monta, ben vengano le manifestazioni, i cortei-fiume, i 1 Maggio autorganizzati, le assemblee in piazza: ben venga tutto questo, poiché è la voce di un popolo stanco, vessato, ammalato, che vede annidato in ogni casa “il male”, “la malattia” che porta via padri, nonni, madri, figli e che vede morire i propri ragazzi per un pezzo di pane volando da un camino o finendo schiacciati sotto un treno-nastri, o persino travolti da un tornado dentro una gru in cui non dovevano trovarsi… Lo Stabilimento, questo Moloch che inizia con la maiuscola per una questione di timore reverenziale usualmente riservato a una divinità terribile e gelosa, ha ingoiato dal ’61 ad oggi circa 500 morti per incidenti sul lavoro. Cinquecento: non è un errore di battitura. Lo scriva. Un’ecatombe. Davanti a ciò, comprende bene, non resta che la marcia, non resta che il popolo, la piazza, la voce unisona di chi, sia pure nel corso di un semplice (ma sudato) concerto, organizzato – va detto sebbene non ne faccia parte – dall’instancabile Comitato Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti che dal 2 agosto ad oggi continua ad alimentare le speranze della città, non si stanca di urlare a un’Italia troppo spesso sorda e distante, lontana, distratta poche parole chiare e nette: “Taranto Ribellati, Taranto Libera!” Ed è verissimo e incontestabile, duole dire anche questo, l’abissale distanza del Paese dalle nostre problematiche: un silenzio assordante, rotto qua e là dalle iene dei media, dalle idiozie dei politici o da cortei liguri che plaudono al ministro Clini: quello stesso Clini che anni addietro, rivestendo un ruolo dirigenziale pubblico, riteneva misura urgente e inderogabile la chiusura dell’area a caldo dello stabilimento genovese proprio per i danni ambientali e sanitari che comportava, mentre nel 2012, a Taranto, si faceva paladino delle sole esigenze produttive nazionali. Ma la nazione in tutto questo dov’era, dov’è? Dov’era il tribuno Grillo, di casa in Val di Susa, nel Sulcis e nello Stretto di Messina – di casa ovunque fuorché qui – quando Taranto veniva blindata con tanto di intervento di elicotteri ed artificieri, dov’era il 2 agosto mentre un pugno di lavoratori assaltava pacificamente il palco di una Triplice terrorizzata dal moto sismico da essa stessa innescato sotto i propri piedi, dov’era quando il 17 agosto in prima fila c’era chi voleva sfondare il cordone di agenti mentre la ragione prevaleva e la città non si faceva fregare da chi voleva a tutti i costi un innalzamento del livello di scontro, dov’era quando a settembre marciavamo ai Tamburi e il 15 dicembre il centro cittadino vedeva una popolazione storicamente addormentata mostrare finalmente il volto vero di un movimento in crescita inarrestabile? Chi gli confezionava la meravigliosa ricetta “confisca-bonifiche-ripartire” (l’avessimo saputo prima, che era così semplice…!) che elargiva da un palco durante una campagna elettorale, conclusa la quale nessuno lo ha più visto da queste parti? E dov’era la sinistra al caviale, che di operai non sa più nulla, dov’erano i fascisti, dove i nazionalisti, i sindacati, le presunte forze rivoluzionarie del Paese? Ma soprattutto, dove diavolo era la gente comune? A guardare Vespa che ricostruiva grafici di casa Misseri. Ecco dov’erano, tutti. O quasi tutti, perché poi ci sono sempre lodevoli eccezioni: ma la natura di una eccezione, è noto, risiede nel confermare una regola e la regola è quella del non vedo-non sento-non parlo. E men che meno marcio. Allora in tutto questo, da cittadino di una città che all’Italia e all’Europa ha dato tanto e tanto continua a dare (come molte altre città ‘olocauste’, poiché non esiste solo il sacrificio di Taranto ma anche quello – talora anche per vantaggio pubblico – di Porto Marghera, di Ferrara, di Napoli, di Brescia e via dicendo), mi sento di dire solo una cosa: chi fa da sé fa anche per te, Italiano. E quando te ne accorgerai sarai comunque il benvenuto a Taranto, sebbene con dieci mesi di ritardo.

...e questa è solo un’anticipazione!

sabato 25 maggio 2013

Vite di cristallo, libro di Ferri che va oltre l'analisi introspettiva

"Anche una minoranza comporta una maggioranza di imbecilli". La citazione, di Malraux, è riportata nel nuovo libro di Cesare Ferri, "Vite di cristallo" (edizioni Settimo Sigillo). Non si tratta di un testo politico, piuttosto di un romanzo molto intimista e filosofico, ma chi è cresciuto nella convinzione che "il privato è politico", troverà il libro di Ferri estremamente interessante anche per comprendere le ragioni di un fallimento della politica destrosa come conseguenza di atteggiamenti personali e di convinzioni individuali. Vite di cristallo non è per nulla intriso di pessimismo, anzi è una continua dimostrazione che ricominciare è possibile, sempre e comunque. Purché lo si voglia e purché si abbiano le doti personali. Ma dove l'ambiente di provenienza di Ferri emerge con la forza della sua estrema debolezza, è nel rapporto con il gruppo. Con quella che nel libro è definita la Compagnia dell'Assenzio. Che vive nell'autoconvinzione di una superiorità nei confronti del mondo esterno ma che, in realtà, è in gran parte composta di invidui che sono esattamente uguali alle persone che disprezzano. Sognano Nietzche ma la loro moralità personale è quella di una shampista (con tutto il rispetto per le shampiste). Ma nell'autocompiacimento non pensano neppure ad una rivoluzione che, inevitabilmente, dovrebbe coinvolgere il mondo che loro rifuggono. Una torre eburnea per un cenacolo di eletti? Macché. Perché l'individualismo portato alle estreme conseguenze determina anche l'impossibilità di ritrovarsi, a lungo, insieme. Dunque muore anche la Compagnia e ciascuno riprede il proprio cammino personale, ad altissime vette o nella banalità del quotidiano. Ma con l'incapacità di stare in gruppo. Ed inevitabilmente con l'incapacità di amare. Perché amare significa condividere e gli eletti della Compagnia possono condividere solo pochi attimi che non costruiscono alcunché. E se qualcuno sposta la scena dall'analisi esistenziale ai comportamenti politici di quelli che, dai vertici dei partitini annientati, vorrebbero costruire la Compagnia dell'Assenzio da presentare in politica, si accorgerà che il percorso è destinato ad essere identico a quello descritto nelle Vite di cristallo.

venerdì 24 maggio 2013

Da Milano, a Londra a Stoccolma: l'Europa dei vigliacchi

L'ex magistrato Dambruoso, transitato nella montiana Lista Civica ed approdato nella maggioranza, è considerato un esperto di antiterrorismo. Ma, probabilmente, non ha mai visto il film "La battaglia di Algeri". E non l'hanno vista tutti quelli che, in questi giorni, stanno sproloquiando di terrorismo fai da te. Una forma alla quale, secondo l'ex magistrato, dovremo abituarci ma che, non essendo strutturata, sarebbe meno pericolosa. Non è che alle vittime freghi molto di essere uccise da un improvvisato terrorista o da un'organizzazione bene addestrata. Ma se qualcuno avesse voglia di andarsi a rivedere il film di Pontecorvo, potrebbe farsi un'altra idea. Come creano il terrore, gli algerini antifrancesi? Con azioni che sembrano improvvisate, ma non lo sono. Nascondendo una pistola in un cestino dei rifiuti, con un ragazzino che arriva disarmato, supera i controlli, prende l'arma e uccide il nemico francese. Incontrollabili perché diffusi, perché sembrano privi di collegamenti. Ed i due killer di Londra hanno ucciso un soldato inglese con armi improvvisate. Non con kalasnikov o con pistole sofisticate. Inoltre operavano in quartieri ad alta densità di immigrazione, in modo da essere come pesci nell'acqua, come insegnava il presidente Mao. Che fare, allora? L'ex magistrato montiano ha la solita ricetta buonista e politicamente corretta: favoriamo l'integrazione. Ovviamente quello che è successo a Londra, dove i killer erano due cristiani convertiti, non gli fa balenare qualche dubbio. E neppure ciò che sta succedendo a Stoccolma, nella superintegrata Svezia: assalti continui, aggressioni, incendi, devastazioni. Perché quando si favorisce l'arrivo di moltitudini di immigrati, per avere manodopera a basso costo ed abbassare, grazie alla concorrenza, i livelli retributivi anche degli autoctoni, si creano solo le condizioni per rabbia, proteste, criminalità, ribellioni. Ma ovviamente un parlamentare montiano non si occupa di questi particolari. L'Europa vuole gli schiavi per arricchire i mercati ed i mercanti? E noi importiamo schiavi e trasformiano in schiavi anche gli europei più deboli. E pazienza se qualcuno usa il piccone e altri la mannaia. Dobbiamo abituarci, ci insegna il montiano ex togato. E guai a protestare. Se no gli ex colleghi rimasti a fare i giudici son pronti a condanne per razzismo. Ed a sconti di pena per gli assassini. In attesa che l'esempio svedese si estenda anche in Italia. Si è già visto a Rosarno, si ripeterà nonostante il finto stupore della gauche caviar tanto integrazionista.

giovedì 23 maggio 2013

Un "presunto killer" da difendere anche a Londra

"Presunto killer". Di fronte alle immagini televisive dell'assassino che, a Londra, aveva ucciso e decapitato un soldato, La Stampa elkanniana riesce a dare il peggio di sè: "presunto killer". Forse per non ferire la sensibilità dei ministri politicamente corretti del governo Alfetta, o in attesa che, nei prossimi giorni, un giudice italiano in trasferta vada a spiegare che il povero assassino sentiva delle voci che gli ordinavano di uccidere. O che un altro magistrato milanese vada a spiegare che il poverino (il killer, mica la vittima) deve essere capito perché aveva avuto una infanzia difficile. Chi muore giace e chi resta si dà pace. Certo. Ma ormai abbiamo creato - grazie ai media - una categoria di assassini che non devono essere puniti come meriterebbero. Discrimazione positiva, come piace a qualcuno. nel senso che immigrati di ogni dove hanno più diritti degli autoctoni. D'altronde ad Alfetta piace tanto il modello Usa, con gli yankee immigrati ed invasori che hanno cancellato ogni diritto ai nativi. Peccato che, in questo caso, i nativi siamo noi. Ma forse a Londra andrà diversamente. Forse i killer saranno condannati per quel che han fatto e non giustificati per un raptus o perché fuori di testa. Forse i media non cancelleranno le notizie sulle vittime, sui funerali e sulla rabbia dei parenti, perché magari qualcuno amico dell'assassino si potrebbe offendere. Dove sono finite le immagini dei funerali della ragazzina violentata e uccisa in Toscana? Che ne è stato del senegalese arrestato? Un raptus erotico da comprendere? Così come è subito sparita l'immagine del picchiatore che ha massacrato di botte la fidanzata. Il femminicidio esiste solo se il colpevole è italiano, se no sono incidenti da comprendere e da perdonare. Ed i media sono i responsabili di questa situazione. Perché difendendo, coprendo, giustificando, non favoriscono l'integrazione ma solo la rabbia di chi deve sempre subire e non ha più neanche il diritto ad avere giustizia. Perché chiedere giustizia, uguale per tutti, significa essere razzisti. Allo stadio contro un simulatore o in piazza contro un assassino. A Londra sarà diverso? Le immagini del killer, del presunto killer per adeguarci a La Stampa, che si fa intervistare in diretta tv con le mani lerce di sangue non inducono ad un grande ottimismo. E la donna che, fregandosene del morto, del sangue, della mannaia e dell'assassino, continua indifferente a trascinare il carrello della spesa, è ancora più preoccupante.

mercoledì 22 maggio 2013

I tifosi del calcio ridotti a belare

Orgoglio, dignità, coraggio, indomabilità: basta leggere i libri od i siti dei tifosi delle squadre di calcio per ritrovare dichiarazioni che grondano valori assoluti, fierezza, superiorità nei confronti del grigio mondo che li circonda. Poi basta che i vertici del pallone italiano chiudano una curva per aver osato fischiare il simulatore Balotelli e tutto questo coraggio ostentato si trasforma in rabbia impotente. Basta che Prandelli, il ct della Nazionale che predica l'esemplarietà dei giocatori azzurri, non solo difenda il simulatore ma addirittura lo esalti, e tutti i valori dei tifosi si trasformano in frustrazione. Immobili, incapaci di reagire, dediti solo al piagnucolio da tastiera. Certo, nessuno pretende che seguano l'esempio di Dominique Venner, lo scrittore francese che si è ucciso a Notre Dame per offrire un segnale in grado di risvegliare le coscienze. Servirebbe molto meno. Di fronte al pensiero unico dei padroni del calcio, basterebbe disertare gli stadi. E non abbonarsi a Sky del mondialista Murdoch. Un mondo pallonaro che vive solo di denari e se ne frega delle bandiere e dei giocatori-bandiera, che se ne frega dei tifosi considerati solo come vacche da mungere, che rifugge da ogni senso di appartenenza, che aborre orgoglio e dignità, questo mondo andrebbe in crisi di fronte alle curve vuote ed al crollo degli abbonamenti tv. Ma non succede, ed i vertici del calcio possono continuare ad imporre regole assurde, a regolare i cori e gli striscioni, a pretendere di abbassare i toni della voce. Possono imporre applausi e fischi a piacimento, possono vietare o permettere le trasferte. Possono fare tutto. Perché orgoglio, dignità coraggio restano sul web e nei libri, ma non si trasformano in un boicottaggio reale di imposizioni assurde. Molto più comodo aggredire tifosi di altre squadre, magari sotto gli occhi compiaciuti di chi interverrebbe con forza se solo un tifoso si azzardasse a fischiare un pupillo di Prandelli. Mai che questo coraggio e questa dignità consentano al tifoso di andarsene a spasso con la morosa per protestare contro lo schifo a cui è stato ridotto il calcio italiano. Macché. Tutti impecoriti ad applaudire a comando, tutti in gregge se l'ordine è di riempire lo stadio per le partite politicamente corrette di Prandelli. Ma poi, sul web e nei libri, tutti tornano leoni e si lamentano, dichiarano, minacciano. Sino alla prossima partita, sino al prossimo gregge. Sempre più silenzioso, quando i padroni impongono la sordina. Sempre più plaudente quando arriverà l'obbligo di applaudire i pupilli di Prandelli che simulano perché è giusto così.

martedì 21 maggio 2013

Bagnasco (Cei) stronca il populismo del Papa: già guerra in Vaticano?

Amerino Griffini, uno della famigerata banda che comprende anche Krancic e Cardini, se l'era chiesto ieri: cosa farà Papa Francesco nello scontro con la Cei? La risposta è arrivata immediata, direttamente dal presidente della conferenza episcopale italiana, Bagnasco: il Papa è destinato a perdere. Perché, dopo le accuse dei media di servizio contro i discorsi populisti di Francesco, seguiti dalla censura sui principali organi di informazione, Bagnasco ha messo giù il carico, invitando a procedere "senza personalismi" e, ovviamente, "senza populismi inconcludenti e dannosi". Più esplicito di così.. Ma tutto l'intervento del presidente della Cei è andato in questa direzione. Con un appoggio al governo Alfetta e con una minaccia di quasi scomunica nei confronti di chi non appoggia questo governicchio all'insegna della nascente balena grigia: "chi blocca l'esecutivo ne risponderà alla storia". Un governo, sia chiaro, che deve guardare ai poveri - un contentino a quell'argentino di razza piemontese bisognava pur darlo - ma ovviamente rispettando tutte le politiche di austerity, di rigore, di macelleria sociale. Conciliare rigore e crescita, ordina Bagnasco. Più o meno le stesse cose che diceva il grigiocrate Monti o la pessima Fornero. Con quelle leggi che, firmate dalla Cara Salma ora di nuovo al Quirinale, hanno determinato suicidi di massa, povertà, disperazione, disoccupazione a livelli record e prospettive per il futuro azzerate. Ma lui, Bagnasco, osanna la Cara Salma e si scaglia contro chi osa opporsi alle logiche imposte dagli speculatori. L'importante, per il presidente della Cei, è che i finanziamenti alle scuole cattoliche non vengano meno. Poi, per tutto il resto, si può discutere. Ma sempre restando all'interno di questo mondo di ex Dc e di aspiranti membri della nuova balena grigia. La Cei vuole tornare ad avere il ruolo di guida della incancrenita politica italiana. E si rende conto che la situazione è cambiata dagli Anni 50, non c'è più la minaccia dell'Orso di Mosca a spaventare i cuori deboli. E così Bagnasco si rifugia nella minaccia del giudizio della storia contro gli oppositori, contro coloro che mantengono la schiena dritta, contro chi non si adatta alla sana povertà imposta dalla speculazione attraverso Merkel e il governo Alfetta. Che il Papa si occupi dell'America Latina, all'Italia ci pensano Bagnasco, Merkel e Soros.

lunedì 20 maggio 2013

La stampa censura Papa Francesco, populista y peronista

Papa Francesco chi? Dov'è finito l'entusiasmo dei giornali italiani dopo l'elezione del nuovo pontefice? Svanito nel nulla. Tutte le aspettative sul Papa moderno e modernista sono andate deluse ed i media italiani - noti per essere sempre super partes - sono stati costretti, loro malgrado, a censurare le esternazioni di Francesco. Ma, insomma, chi si crede di essere? Non è mica la Cara Salma ascesa al Quirinale. Lui, Francesco, non può limitarsi a predicare la povertà. E a chi diavolo interessa che stia proseguendo la lotta ai pedofili avviata dal predecessore Benedetto? Ai giornalisti italiani no, dunque non deve interessare neanche agli italiani tout court. Perché i nostri esperti si erano davvero illusi di aver trovato un Papa allineato e coperto con le loro fissazioni: matrimoni e adozioni a tutto campo, una Chiesa che non si occupasse di quelle scemenze tipo riti e fede ma continuasse con quella sociologia d'accatto che contraddistingue tante parrocchie, multiculturalismo a tutto spiano, nessuna opposizione al potere della speculazione finanziaria. Invece questo arriva dall'Argentina e si monta la testa. Pensa che la Chiesa debbe fare la Chiesa. E, ultimo affronto, si permette di dichiarare ai quattro venti che è vergognoso occuparsi solo di far contenti i mercati, i banchieri e gli speculatori e fregarsene della disperazione delle famiglie, dei poveri. Ma come? Arriva in Italia e dice il contrario di quanto sosteneva Fornero? Di quanto imponeva Monti? "Noi rispondiamo ai mercati", ci spiegava il Grigiocrate. E lo ripeteva Bersani. E proseguiva Quagliariello. Il governo Alfetta non si discosta dalla linea, grazie agli illuminati come Saccomanni. E questo Francesco niente. Ma allora ci ha imbrogliato. E' arrivato con la fama di essere contro la peronista Kirchner e ora copia le posizioni sociali dei peronisti? Dunque l'unica soluzione è censurarlo. Farlo sparire dalle cronache dei giornali. Così come è successo per i 3 morti di Milano uccisi dal ghanese: cancellati, dimenticati. Per fortuna ci pensano i preti ad aiutare la censura. Quei preti che, a messa, ripetono le parole di Francesco, ma si dimenticano sempre le frasi contro i mercati ed i Soros di turno. Coincidenze, certo. Ma l'importante è cancellare il Papa populista.

venerdì 17 maggio 2013

L'Alfetta non fa miracoli. E gli italiani si suicidano

Il governo Alfetta annuncia che sull'Imu non ci saranno miracoli. Oddio, nessuno si aspettava miracoli da questa banda di incompetenti. Ma un briciolo di intelligenza forse sì. Ma era pretendere troppo. La ricetta dell'Alfetta? Il Monti bis. Proseguendo nell'impoverimento dell'Italia, ad ogni costo. Prelevando, tassando, tagliando. Lo chiede l'Europa. Quell'Europa che è ora totalmente in recessione grazie ad una politica economica criminale e demenziale. Ma Alfetta poteva buttare lo sguardo un poco più in là? Si sarebbero accorti, i ministri, che in Giappone il Pil ha ripreso a crescere perché si è scelta una politica opposta. Con più debito pubblico (nonostante avesse già superato il 220% del Pil) e, finalmente, più crescita. Troppo difficile da capire per chi non ha alcun rapporto con il proprio popolo ma solo con i propri padroni che speculano. Così il governo della Balena Grigia se ne frega se un disoccupato si uccide a Torino, se un altro preferisce uccidere il padrone che l'ha licenziato e insieme ammazza pure il figlio. Se ne frega di chi si uccide perché gli pignorano la casa o di chi tenta di uccidersi perché la casa è stata venduta all'asta dalla banca. Qual è l'unico problema per Alfetta? Capire come andare avanti con la macelleria sociale, nonostante i processi a Berlu. Perché l'Italia, secondo loro, vive solo di questo e per questo. Mica ci sono altri problemi con la magistratura. Tipo le attenuanti concesse al rom che ha rubato un'auto e ha ucciso un vigile: 15 anni di galera (che, ovviamente, si ridurranno tra permessi, sconti, buona condotta etc etc) perché, poverino, arrivava da un ambiente difficile. E 17 anni ad un marocchino che aveva assassinato a coltellate la fidanzata per poi buttarla nell'immondizia. Se sei straniero non si parla neppure di femminicidio (poverino, avrà avuto i suoi motivi). Tutto è lecito. Tanto i giornali han già cancellato le notizie sull'assassino violentatore senegalese (poverino, avrà avuto un raptus) e sul ghanese picconatore (poverino, era fuori di testa). E mentre Alfetta manda vagonate di milioni di euro ai Paesi che ci spediscono la loro feccia (mai che ci mandino i migliori) e che si rifiutano di riprendersela, per gli italiani resta l'alternativa tra il suicidio e l'omicidio. Perché loro, i ministri dell'Alfetta, non sanno fare i miracoli. E neppure l'ordinaria amministrazione.

giovedì 16 maggio 2013

Imprenditoria destrosa e vigliacca

Quando Torino era sottoposta al giogo dell'impero Agnelli, ed annegava nel grigiume imposto da corso Marconi, non mancavano gli imprenditori che assicuravano di voler investire per migliorare la città. Senza farlo mai. "Noi saremmo anche pronti a spendere tanto, ma come si fa? Se organizziamo qualcosa, se la finanziamo, se la sponsorizziamo, l'Avvocato si offende e ci fa una guerra mortale". Questo era il grande alibi. Ma Orfeo Pianelli, che arrivava da Mantova, investì molto e bene per potenziare il Toro e la squadra granata vinse lo scudetto. Tutti sanno perfettamente che Agnelli avrebbe rinunciato ad una legione delle sue amanti per evitare una simile onta, ma Pianelli continuò a vivere e lavorare a Torino. E il conte Rossi di Montelera, in un ultimo sussulto nobiliare prima di cedere la Martini & Rossi ai dollari cubano-americani, sponsorizzò adeguatamente la squadra di basket cittadina. Senza incorrere in ritorsioni da parte della Fiat. Alibi, appunto. Come quelli messi in campo dai non pochi imprenditori e pure finanzieri che assicurano di gravitare sul centrodestra e persino a destra. "Noi investiremmo anche, mica siamo taccagni. Ma poi rischiamo di finire come Berlusconi, sotto attacco delle toghe rosse. E sotto attacco di giornali come Repubblica, Stampa, Corriere. Andate avanti voi, noi vi sosteniamo moralmente". Certo, come spiegava Manzoni, uno il coraggio non se lo può dare, se proprio non ce l'ha. E gli imprenditori eroici non abbondano nella storia italiana. Molto attenti al particulare, al proprio portafoglio, convinti che a dar ragione ai potenti ci sia sempre da guadagnare. Liberissimi di pensarlo e di agire di conseguenza. Ma è assurdo che, dopo, vadano a piangere quando si accorgono di non aver leccato a sufficienza e che i potenti di turno hanno premiato altri. Eppure, se con l'analfabetismo di ritorno ignorano Manzoni, potrebbero ricordarsi gli avvertimenti della nonna: "chi pecora si fa, il lupo se la mangia". Invece niente. Pronti ad invidiare, ed a criticare, il compagno Oscar Farinetti (il patron di Eataly) perché appoggia Renzi e finanzia le inziative di Baricco. "Ah, lo faremmo anche noi, ma poi chissà cosa ci fanno i magistrati ed i giornalisti comunisti". Già, cosa fanno? Nulla, nella stragrande maggioranza dei casi. Ma è più facile nascondersi dietro alibi, paure, scuse. C'è da comprare l'ultima barca e trasferirla in un porto francese, mica ci si può occupare di sostenere un politico o uno scrittore. Già, al Salone del Libro di Torino il premio Acqui Storia è presente, nonostante gli attacchi dei giornali locali e nazionali. Non è stato aggredito il factotum del premio, Sburlati, anche se Acqui è diventata un'oasi di libertà intellettuale. E Giordano Bruno Guerri al Vittoriale? Celebra D'Annunzio e le toghe rosse manco lo arrestano. Dunque, per chi parla e scappa, si tratta solo di vigliaccheria, di taccagneria, di miseria umana. Gente che sogna Mussolini, ma poi non investe neppure per far nascere Il Popolo d'Italia. Ed allora questa gente può tranquillamente continuare a spendere per le proprie mantenute, può andare con barche che battono bandiere esotiche, può far tutto ciò che vuole. Ma abbia la dignità di tacere. Di non protestare, di non lamentarsi, di non insistere con "io farei, ma non mi lasciano fare". Basta, solo silenzio. Se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee, o non valgono nulla le sue idee o non vale nulla lui. Ecco, le idee le abbiamo noi, il nulla sono loro.

mercoledì 15 maggio 2013

Ripartire si può. Contro l'Ue e contro Alfetta

Che fare? Se lo chiedeva Lenin e se lo chiedono in tanti, adesso, in Italia. E' possibile superare questa situazione disastrosa e che peggiora quotidianamente? Si può, certo non con il governo Alfetta, con la Balena Grigia che si prospetta per il futuro politico di un centro ammorbante, con questa criminale accettazione degli ordini del mercato e della Ue. Da dove ripartire? Ovviamente dal recupero della sovranità, monetaria ma non solo. Sovranità economica, alimentare, politica. L'Europa Unita non è un male, anzi è un obiettivo da perseguire perché indispensabile in uno scenario globale. Ma è l'Unione europea, così come è stata realizzata, ad essere assolutamente inaccettabile. Un coacervo di euroburocrati, eurobanchieri, euroservi di interessi extraeuropei. L'Europa va costruita a partire dai popoli, non a partire da una moneta che opprime i popoli. L'euro è importante come moneta di una grande unione di popoli, non come espressione di banche assetate di sangue. Ma gli idioti politicamente corretti spiegano che non è possibile uscire dall'Ue e dall'euro, paventando disastri inenarrabili. In realtà non bisognerebbe uscire dall'Ue ma distruggere l'Ue e costruire qualcosa di totalmente diverso. Ma è un altro discorso. I mercati e l'Ue possono fare a meno dell'Italia? No. Dunque, se ci fossero politici italiani poco più che indecenti, si potrebbe cominciare a rinegoziare le assurde imposizioni che gli stessi politici hanno accettato. Via il pareggio di bilancio che non permette manovre indispensabili, via i pagamenti di tassi eccessivi. I mercati non investirebbero più in Italia, non ci darebbero più fiducia? Menzogne. Anche nel momento più critico, con l'Italia sotto attacco, sono arrivate offerte da Mosca e Pechino. Offerte, non richieste nostre. Quanto alla moneta, se si vuole conservare l'euro per gli scambi internazionali, si deve affiancare una moneta interna. La lira o come la si vorrà cambiare. Si deve introdurre una moneta di scambio a tasso negativo per rilanciare i consumi. Ma bisogna intervenire anche sull'economia reale. Cancellando la riforma Fornero sul lavoro. Tutelando i lavoratori meno giovani che non hanno prospettive di reimpiego dopo un criminale licenziamento individuale per ragioni economiche (significa, in pratica, che si ritroveranno senza lavoro e senza pensione, per anni e anni, solo perché avevano un salario più elevato di un giovane neoassunto). I lavoratori meno giovani sono quelli che, nella stragrande maggioranza dei casi, mantengono le famiglie e consentono ai figli di studiare favorendo la mobilità sociale. Bisogna abbassare le tasse, da quelle sulla casa a quelle sul lavoro. Per restituire ai cittadini i soldi che i servi dell'Ue regalano agli speculatori. Intervenire sulla pubblica amministrazione, obbligando gli enti locali a pagare direttamente (non con i soldi dello Stato) tutto il personale che supera i livelli standard: tot abitanti=tot dipendenti. E destinare le risorse, per quanto scarse siano, ai settori ed alle aziende che hanno davvero prospettive. Dal turismo, che deve valorizzare l'immenso patrimonio artistico e culturale, all'aerospazio, dall'agroindustria alla meccatronica. L'ediliza deve essere sostenuta non concedendo di continuare a distruggere il paesaggio, ma con il recupero delle immense aree abbandonate e con la riqualificazione delle porcate esistenti e che sono state realizzate negli anni della morchia DC-Pci. Il Welfare deve essere rafforzato, ma tenendo conto che le risorse a disposizione sono quelle prodotte da chi lavora. Non ci sono le risorse per mantenere milioni di clandestini che non producono reddito o che accettano lavori in nero, che spediscono a casa milioni di euro all'anno (e fanno bene, ovviamente, visto che l'Italia giolittiana ha sistemato i bilanci con le rimesse dei nostri emigrati). Tanto meno quelli che arrivano in Italia solo per usufruire del welfare, senza fare alcunché. E per ridurre i costi bisogna far scontare agli stranieri le condanne a casa loro, togliendo ogni aiuto di qualsiasi genere ai Paesi che si rifiutano di riaccogliere i loro compatrioti che hanno commesso delitti in Italia. Questo è solo un inizio, ma da qualche parte bisogna pur cominciare.

martedì 14 maggio 2013

Governo Alfetta come Monti, peggio di Monti

Contrordine italiani! Tutte le promesse illustrate da Letta al momento della predazione della presidenza del Consiglio sono soltanto balle. Ballon d'essai, per essere più fini. Ma palle nella concretezza. La riduzione delle tasse e l'abolizione dell'Imu? Ma dai, davvero ci eravate cascati? Era una elegante provocazione, come quella di Grillo quando ha proposto Rodotà come presidente della Repubblica. Beh, certo, il Pd ci era cascato, e pure la maggior parte dei media. Ma voi, italiani, l'avevate capito che era un tranello, no? E adesso, invece, ci rimanete male perché il governo Alfetta (Alfano-Letta) è già ingolfato? Saccomanni va in Europa e promette che non cambia niente nella politica del rigore: Monti bis senza Monti. Ma con l'Europa e con i mercati questo giochino del ballon d'essai mica lo fa, il governo Alfetta. Dunque i saldi non si toccano. E le risorse per la ripresa non ci sono. Dunque meglio occuparsi di riforme del sistema elettorale, del bicameralismo più o meno perfetto, di qualunque cosa purché non si parli di restituire i soldi agli italiani. Rinegoziare il debito? Eresia! Tutt'al più si sposta la rata da prima delle ferie a dopo le ferie, per una maxistangata a settembre. Ma qualcuno, distratto, magari va in ferie lo stesso e così Alfetta fa bella figura raccontando che c'è la ripresa. Inanto aumenta la fuga di cervelli dall'Italia, e aumentano anche gli sbarchi di clandestini. Un Paese ridotto alla fame, come volevano Monti ed i suoi sponsor speculatori, deve rinunciare ai cervelli e puntare solo sulle braccia. Braccia di schiavi, ovviamente. Perché tutti i deficienti politicamente corretti che vogliono la libertà di immigrare e lo ius soli, sanno benissimo che aumentare la concorrenza con milioni di disperati significa abbattere le condizioni di lavoro e di salario per tutti. Ma visto che i deficienti sono, in larga parte, figli della gauche caviar, con aziendina del papi e cameriera pagata in nero, è ovvio che siano felici di questa situazione. Non essendo capaci di fare gli imprenditori sulla base di una sana competitività, puntano sullo schiavismo. D'altronde questa è l'Italia che assegna il Premio Terzani a Soros. Sì, proprio lo speculatore che - all'epoca di Ciampi, di Amato e di grandi economisti del loro calibro - aveva assaltato la lira facendo perdere agli italiani il 30% della loro ricchezza. E lui Soros, aveva guadagnato più di 1 miliardo di dollari in due giorni. Pentito? Macché. In un'intervista a La Stampa (il quotidiano sempre allineato con il peggior mondialismo) ha chiarito che è stata una grande operazione e che se gli speculatori agiscono, la colpa è dei politici che non fanno leggi antispeculazione. Peccato che i politici siano impegnati a prendere ordini dagli speculatori, come si è visto con il governo del grigiocrate prima e con l'Alfetta ora. Ma assegnare anche un premio ad un simile personaggio fa capire perfettamente il livello di idiozia raggiunto dal Paese. Che ora si prepara anche a garantire quote di occupazione nel settore pubblico agli immigrati. Perché 6 milioni di disoccupati italiani (il doppio rispetto alle statistiche ufficiali) sono ancora pochi per qualche ministro.

lunedì 13 maggio 2013

Società atomizzata per evitare la ribellione

La vicenda del ghanese che ha ammazzato e ferito a picconate alcuni passanti a Milano fa emergere, al di là degli evidenti problemi di immigrazione e di rifiuto di tutela nei confronti degli italiani, un aspetto forse persino più grave: l'atomizzazione della società italiana. I primi aggrediti, con ferite sostanzialmente leggere, si sono ben guardati dal prendere il cellulare e telefonare a carabinieri o polizia per denunciare quant'era accaduto. Forse una telefonata avrebbe permesso di salvare una vita, forse non sarebbe bastato. Ma nessuno ha fatto quella chiamata. Gli psicologi sono subito intervenuti per spiegare che era la conseguenza della paura: lo choc avrebbe impedito un gesto semplice e doveroso. Sarà anche così, ma questi atteggiamenti diventano sempre più frequenti, in ogni occasione. Ed è difficile da credere che questo Paese sia in preda ad uno choc continuo, di fronte ad ogni avvenimento che esuli anche solo minimamente dalla routine quotidiana. Si gira la testa quando si assiste ad uno scippo, si fa finta di niente di fronte ad una aggressione per strada, si finge di non vedere qualsiasi avvenimento possa richiedere un coinvolgimento personale. Certo, gli atteggiamenti della magistratura non aiutano. Si interviene per bloccare una ragazzina rom che sul tram sfila il portafoglio ad un anziano? Si rischiano accuse di razzismo, di violenza privata, persino di sequestro di persona. Si interviene per evitare un'aggressione ad una sconosciuta? E ci si ritrova in tribunale con l'accusa di rissa. Ma anche quando non scattano le accuse penali, ogni intervento civico e civile comporta una intollerabile perdita di tempo per colpa di una burocrazia ottusa ed inutile. Convocazioni per testimoniare, permessi dal lavoro e mai che qualcuno sia puntuale. Se poi si deve andare in trasferta per una testimonianza, ci si ritrova a perdere tanto denaro oltre a tanto tempo. Tutto vero. Ma l'indifferenza non si limita a questi episodi. Non si denunciano le buche per strada, nonostante la gente crepi (a Torino è appena morto un pensionato), perché tanto la giustizia è a senso unico contro i cittadini. Non si aiuta la vicina di casa anziana perché non si sa mai (non si capisce che rischi ci possano essere, ma li si evita a prescindere), non si aiuta un bambino per paura che qualcuno pensi ad un atto di pedofilia. Il problema, vero, è che non si aiuta più nessuno perché gli altri non esistono più. Ciascuno è chiuso nel suo particolare, una società atomizzata. Anche questi sono gli effetti della società del web. Uno vale uno e uno pensa ad uno. Cioé a se stesso. Ci si mobilita, ma solo sul web, per qualsiasi nobile causa, possibilmente falsa. Si pubblicano le foto di bambini eroici dall'altra parte del mondo, perché la lontananza impedisce un controllo sulla effettiva realtà dei fatti. Ma ci si lamenta con l'amministratore del condominio se un bambino gioca a pallone nel cortile. Ciascuno chiuso nel proprio alloggio, nel proprio percorso verso il posto di lavoro, nella propria scrivania o postazione. Il web come grande alibi per non uscire, per non confrontarsi guardandosi negli occhi. Divide ed impera: più divisi di così è difficile. I canti del lavoro hanno accompagnato e forse stimolato le grandi lotte della fine dell'800 e dell'inizio del 900. Ora la musica si ascolta nelle cuffiette che isolano dagli altri. E il lavoro, non a caso, si riduce ed aumenta lo sfruttamento. "C'è solo la strada su cui puoi contare", cantava Gaber. Ora c'è solo il web. Per impedire di contare davvero.

venerdì 10 maggio 2013

Nel governo Alfetta il Pdl fa pagare l'Imu

Avrà sicuramente ragione Krancic, quando spiega che la farsa giudiziaria berlusconiana è già tutta scritta: dopo la condanna in Appello provvederà la Cassazione a salvare Berlu. Ma, nel frattempo, Silvio si arrabatta per giustificarsi sulle sue tv ed ignora i disastri che i suoi caporali di giornata combinano al governo.Già, perché sono stati proprio i suoi rappresentari nel governo Alfetta (Alfano+Letta) a far passare la stangata sull'Imu. Decisa proprio mentre le tv di Silvio sostenevano che l'unico problema del Paese fossero i magistrati rossi. Per carità, le "toghe comuniste" si dimenticano dei problemi della giustizia nazionale e spendono milioni di euro per la caccia al Berlu. Un'ossessione fastidiosa. Ma lui, il Cav, considerandosi l'unto del Signore impegna ogni sua forza nella guerra alla magistratura. E dopo aver piazzato i suoi uomini al governo, assicurando che avrebbero vigilato per difendere i risparmi degli italiani, fa finta di niente quando i suoi ministri avvallano la porcata sull'Imu. Colpite le seconde case, gli esercizi commerciali, i capannoni industriali. E tanto per non far mancar niente ai cittadini, i Comuni hanno già provveduto ad aumentare le aliquote. Risultato? Secondo il Sole 24 Ore su pagherà dal 50 al 200% in più rispetto allo scorso anno. Davvero efficienti, questi ministri del Pdl. Davvero degni di fiducia, dopo le promesse in campagna elettorale. In cambio però, "slitta" a settembre la decisione sulla prima casa. Manco l'eliminazione garantita, dopo le altre stangate. E questo dovrebbe servire a ridare slancio al Paese? A far ripartire la spesa delle famiglie? A ridare fiato all'occupazione? Tutti a scuola dal peggior Monti, evidentemente. Ma allora non è stata casuale la scelta del momento per far filtrare la notizia sulla stangata: proprio mentre arrivava la condanna a Berlu ed il Cavaliere si affrettava a spiegare di essere responsabile e di non voler far cadere il governo su una vicenda personale. Così, confondendo la sua persona con l'Italia, non ha fatto cadere il governicchio neppure per la concomitante porcata che annullava ogni promessa elettorale. Forse è l'inizio di una strategia ben precisa. Berlu è vecchio, ricattabile per le vicende giudiziarie. Ed i suoi caporali del Pdl sono di una rara incapacità. Non possono sopravvivere, politicamente, in un Pdl senza Berlu. Dunque dovranno cercare un'altra casa. Quella che si andrà creando con l'alleanza dell'Alfetta, una nuova Dc dove confluiranno Letta e Fioroni, Alfano e Lupi, magari anche Renzi per guidare la scombinata combriccola. Con Quagliariello, Binetti, qualche esponente di quella Scelta Incivile che, dopo aver distrutto l'Italia con Monti, proseguirà a far danni nella nuova formazione. Dove non entreranno le Amazzoni, dove non ci sarà posto per i sempre più marginali ed emarginati ex An. E neppure per Civati e Barca. Una grande balena grigia, non più bianca, che navigherà sottocosta perché non ha i comandanti in grado di portarla in mare aperto.

giovedì 9 maggio 2013

Centrodestra: sì ai culturisti, no alla cultura

Ma cos'ha fatto di male la cultura al centrodestra? Ha creato problemi di vista ai coraggiosi (pochi) che si sono avventurati nella perigliosa apertura di un libro? Ha provocato sordità tra quelli che si sono azzardati all'ascolto di una musica non da discoteca? Possiamo escludere a priori la sindrome di Stendhal perché presupporrebe l'eroico superamento di se stessi per affrontare un museo. La prossima settimana inizia il Salone del Libro di Torino e tutta l'area politica conquisterà, come al solito, uno strapuntino per il quale sarà anche pronta a ringraziare gli organizzatori, impegnati in dibattiti poltronati con la cultura rigorosamente rossa. D'altronde uno dei massimi responsabili del Salone ha chiarito di non volere Grillo tra i piedi, perché la cultura è "cosa loro", del Pd e frange connesse. Beh, certo che se l'alternativa è quella messa in campo dai politici del centrodestra, e cespugli collegati, è difficile dar torto al boss culturale della Fiera. In realtà, nella galassia non parlamentare del centrodestra, la cultura esiste, è viva, è di buon livello. Ma è boicottata, in primis, dai politici che si considerano di riferimento (e non lo sono). Si deve assegnare il ministero che si occupa di questa cosa strana, la cultura? Beh, se lo tenga la sinistra. Ed i sottosegretari? A sinistra. Ed i vertici di qualsiasi organismo che abbia a che fare con quadri, statue, libri, concerti, architettura, archeologia? A sinistra, per carità. Alla fine, ma giusto per far finta di esistere, il centrodestra ha piazzato Galan alla presidenza della Commissione della Camera. E son garanzie! Ma non è che la situazione migliori molto, passando dal governo alle Regioni, alle Province, ai Comuni. Quando proprio bisogna nominare un assessore per questo fastidioso settore, si cerca uno che non crei problemi, che non abbia strani rapporti intimi con la cultura e che, quindi, possa tranquillamente affidarne la gestione alle associazioni di tutt'altra provenienza. Mica si vorrà dare spazio alla cultura della propria area? Culturisti sì, acculturati mai. E allora si comprende perché il sostegno alle pubblicazioni più o meno vicine non esista. Si arrangino, visto che vogliono occuparsi di un tema pericoloso. Tv? C'è già Silvio, mica si può lavorare anche sul territorio come fanno gli altri. Radio? Solo musica commerciale, per carità. E guai a pensare alle radio libere di un tempo: roba da compagni. Ci sarebbe anche il web, ma i social forum servono solo per i messaggi d'amore e per le battute scurrili che fan tanto scuole medie (inferiori, ovviamente). Ed allora mica ci si può stupire se i politici del centrodestra se ne fregano quando i loro sostenitori vengono puniti da facebook per aver sostenuto tesi che dovrebbero essere quelle degli stessi politici. Mica si azzardano a protestare contro la censura a senso unico, mica han tempo da perdere con la libertà d'informazione e di critica. Loro, i politici, devono già spartirsi le poltrone legate alla giustizia, ai lavori pubblici, alle infrastrutture. Per tutto il resto c'è Mastercard, oppure il Pd.

mercoledì 8 maggio 2013

L'Ue viola i diritti umani: lo dice l'Onu, non Letta

"La politica di salvataggi bancari dell'Unione europea costituisce una violazione dei diritti umani". Il solito (e sacrosanto) attacco di Nigel Farage? Macché. L'affermazione, riferita alla Grecia ma ampiamente estendibile, è di Cephas Lumina, della Commissione Onu per i Diritti Umani. Onu, Onu.. Ma non c'era, in Italia, una signora che lavorava all'Onu? E che è diventata presidente della Camera? Com'è che lei, la signora, non se n'era accorta? Troppo impegnata a denunciare chi ironizzava su Fb con foto taroccate? Beh, certo, i problemi veri sono questi. Sono i fotografi che ritraggono la sua bambina (maggiorenne), mica le misure imposte dai mercati e dall'Ue che "hanno provocato una contrazione dell'economia e pesanti costi sociali per la popolazione, oltre all'alta disoccupazione, l'aumento dei senzatetto, della povertà e della diseguaglianza". Certo, è riferito alla Grecia. Ma davvero nessuno dei corifei del politicamente corretto si è accorto che Atene assomiglia sempre di più a Roma? Troppo impegnati nei salotti della gauche caviar per accorgersi di chi, in Italia e non in Grecia, si suicida perché il caviale manco se l'è mai sognato ed ora non può sognare neppure un panino al salame? Davvero questi radical chic non si sono accorti che la politica economica del grigiocrate Monti era non solo criminale ma anche tecnicamente sbagliata? Eppure la ricetta applicata alla Grecia dovrebbe far riflettere: su 1,3 milioni di disoccupati - ricorda Lumina - solo 160mila ricevono sussidi di disoccupazione mentre gli altri non hanno neanche l'assicurazione sanitaria; la disoccupazione ufficiale è salita al 28%, il 10% dei greci vive in condizione di estrema povertà. Brillante risultato delle misure di austerità. E chi non ha lavoro, non ha casa, non ha prospettive, difficilmente potrà pagare le tasse per placare la voglia di sangue della Bce e della speculazione. Vale per la Grecia, ma anche per l'Italia. E nei giorni scorsi si è assistito, nuovamente, all'immondo balletto delle ricette da imporre al nostro Paese. "Bisogna proseguire con il rigore e senza ridurre le tasse"; "bisogna far ripartire l'economia e l'occupazione, perché in caso contrario non potrete pagare il debito". Delle due, l'una: o si investe per rilanciare l'economia ed il lavoro, alleggerendo le tasse e rinegoziando debito e tempi di pagamento, o si continua a farci massacrare da questi bastardi e si rinuncia al lavoro ed alla ripresa dell'economia. Ma, con questa seconda scelta, procediamo sempre più velocemente verso l'impoverimento totale e finale, con un continuo aumento delle tasse poiché la ricchezza creata diminuisce e per mantenere i medesimi livelli di pagamento ai mercati si devono aumentare i prelievi dal sempre più ridotto numero di persone con un reddito e con una proprietà. Sino ad arrivare a toccare gli idioti politicamente corretti. E a quel punto, quando dovranno rinunciare allo champagne preferito ed al caviale, si accorgeranno di aver sbagliato qualcosa.

martedì 7 maggio 2013

Dopo il Divo Giulio se ne va anche Fini

Il Divo Giulio se n'è andato. E domani lascerà la scena anche chi, Divo, si è sempre sentito pur senza esserlo mai stato: Gianfranco Fini. Meglio noto come "dietro gli occhiali, niente", tanto per comprendere la stima di cui godeva per le sue qualità intellettuali e culturali. Se ne va in punta di piedi, con un "beau geste", secondo quanto scrive La Stampa. E quale sarebbe il bel gesto finiano? Uscire di scena favorendo il ricompattamento di un'area che lui, il signor Tulliani, ha distrutto. E come favorirebbe il ricompattamento, secondo il quotidiano degli Agnelli-Elkann? Ma trovando un modo per spartire il patrimonio (ingente) della defunta An. Beh, trattandosi di Fini, mica qualcuno avrà pensato ad una iniziativa sul fronte dei valori, della politica? Macché. Il senso dell'articolo è chiaro: i sopravvissuti del Fli rientrano nell'alveo della costituenda "Cosa di destra" ed in cambio non rompono le palle sulla divisione del bottino di An. Davvero incoraggiante per una formazione politica che dovrebbe essere nuova e nascere su basi molto ma molto diverse rispetto al passato. Certo, senza soldi non si fa politica, tantomeno una politica di successo, vincente. Ma diventa difficile da capire come possano rimettersi insieme i Menia e gli Storace. E magari Moffa e Meloni. Dopo che si sono insultati, in privato e pubblicamente. Dopo che hanno sostenuto tesi contrapposte su temi anche di notevole importanza. Tutto dimenticato nel nome del Dio-eredità? E quale sarebbe la proposta politica di un simile guazzabuglio? Lo ius soli propugnato da chi arriverà dal Fli o i respingimenti di Storace? Ma, soprattutto, a chi può davvero interessare una Cosa di Destra di questo tipo? Non è bastato, come segnale, il risultato delle ultime elezioni? Anche sommando tutti i cespugli ed i bonsai, non si arriva alla creazione di una pianta. Perché non avrebbe radici. Non avrebbe gli spazi, non avrebbe alcun senso. E' vero che il denaro di An rappresenterebbe un buon concime, ma il problema è che non ci sarebbe terra da concimare perché - in quel gran casino - non si vedono semi che abbiano una possibilità di trasformarsi in alberi.

lunedì 6 maggio 2013

Lettera aperta al ministro Kyenge

Cara signora Kyenge, dal momento del suo giuramento come ministro della repubblica italiana lei ha dimostrato che non le piacciamo. Legittimo, per carità, ma per coerenza uno non dovrebbe accettare di governare un popolo che non ama. Perché, vede, da noi, in Italia, esistono delle regole di buona educazione. Magari superate, ma che a noi piacciono ancora. E una di queste regole prevede che, se si va a casa degli altri, si chiede permesso, si entra e ci si adegua alle regole della casa. Certo, saranno atteggiamenti che lei non condivide. Per questo lei è arrivata e ha cominciato a dettare regole nuove a chi la ospita. Non mi piace cosa mangiate, come parlate, cosa dite, i vostri quadri appesi alle pareti, i colori dei muri, gli infissi. Non le piace nulla. E, dunque, tra andarsene in un Paese che le piace di più e cambiare il nostro, lei ha scelto la seconda opzione. Vede, caro ministro, noi avremo tanti difetti, anzi tantissimi. Ma siamo legati alla nostra civiltà, plurimillenaria. Ha presente quei sassi, quei muri rotti che costellano i nostri paesaggi? Noi li chiamiamo reperti archeologici. E ci siamo affezionati. Come siamo affezionati alla nostra lingua, alla nostra cultura. E non siamo contenti quando una persona che ospitiamo arriva e ci dice che noi dobbiamo cambiare. Perché siamo noi che dobbiamo adattarci a chi arriva e non viceversa. Curiosa idea. Rispettabile ma curiosa. Così come il suo intervento per chiarire che lei non è una persona di colore. Brava. Abbiamo pensato che, finalmente, fosse arrivato un ministro che se ne fregava dei luoghi comuni del politicamente corretto. Macché. Solo una breve illusione. Perché subito dopo ha aggiunto che lei non è di colore, ma nera. Ecco, vede caro ministro, ci rendiamo conto che la vicinanza con i politici italiani - quelli che considerano il congiuntivo come un nemico da abbattere e chiedono "te cosa fai domani?" - non agevoli la padronanza della lingua italiana. Ma il nero, al di là dell'onanismo intellettuale se deve essere considerato un colore o un non-colore, nell'accezione comune è un colore. E allora cosa vuol dire che lei è nera ma non di colore? Nera è una camicia, un'auto. Ma lei è una persona, non un oggetto. E, in italiano, lei è negra. E non c'è nessuna offesa, nessuna accezione negativa nel termine. Certo, è offensivo negli Stati Uniti d'America. Ma a noi che ci frega? Non siamo in America. Forse lei è stata tratta in inganno dalla sua collega Bonino, convinta che la nostra capitale sia Washington e che, quindi, dobbiamo adeguarci alla lingua d'Oltreoceano e alle decisioni delle loro Corti. Ma non è così. Se lei avesse avuto voglia di informarsi sulla nostra cultura, avrebbe scoperto che una delle più belle canzoni antirazziste, interpretata da Fausto Leali, si intitola "Angeli negri". Non neri, ma negri. "Anche se la Vergine è bianca, disegna un angioletto negro".. Perché vede, signora, gli italiani sono tutt'altro che razzisti. Troppo abituati ad essere invasi da spagnoli, francesi, austriaci e ad essere guidati da inglesi e americani per potersi permettere la xenofobia. Ma il razzismo cresce, adesso, per i comportamenti dei paladini del politicamente corretto. Cresce quando le case popolari vengono negate agli italiani poveri, figli e nipoti di chi ha pagato le tasse permettendo la costruzione di quelle stesse case, per assegnarle a stranieri appena arrivati e che nulla han fatto per questo Paese. Cresce quando si tagliano i fondi per il trasporto pubblico a Torino e si regalano 5 milioni agli zingari (che non hanno fatto assolutamente nulla per averne diritto). Cresce quando nelle scuole i bambini italiani devono rinunciare alla festa di Natale per non infastidire i bambini di altre religioni o quando devono rinunciare al prosciutto in mensa perché altri non vogliono mangiarlo. Ecco, caro ministro, prima di lanciarsi in iniziative che andranno in senso contrario ad ogni integrazione ed interazione, provi a pensare a tutto questo. E se proprio non le piace come siamo fatti, può sempre scegliersi popoli migliori del nostro.

venerdì 3 maggio 2013

Il compagno della Trilateral: Santoro

D'accordo che cambiare idea si può e che gli extraparlamentari di sinistra si sono spesso trasformati nei cani da guardia del potere. Ma vedere Michele Santoro trasformato nello strenuo difensore della Trilateral, di Bilderberg, della Bce e della Banca d'Italia appare davvero eccessivo. Invece le milionate di euro incassate alla guida dei suoi programmi tv lo hanno reso uno strenuo difensore dei poteri forti. E di fronte alla disoccupazione dilagante, alla povertà devastante, alla rabbia montante, la ricetta di Santoro (ma non è che Cofferati abbia avuto dei guizzi sostanzialmente diversi) è semplicissima: continuiamo a far distruggere l'Italia dalle politiche criminali della Merkel e della Banca Centrale Europea. Continuiamo a rovinare il tessuto produttivo per far contenti gli speculatori alla Soros o alla David Serra (il patron di Renzi). Non andiamo a Bruxelles a rinegoziare il debito e le condizioni di pagamento, ma limitiamoci a chiedere un poco di elemosina. L'Imu? Indispensabile. Paghiamo e stiamo zitti. In cambio, secondo Santoro e Cofferati, potremo ricevere qualche aiuto da destinare esclusivamente alle fasce più povere, immigrati compresi, in modo che non muoiano realmente di fame. Siamo tornati al peggiore 800 in salsa inglese. Non lo sviluppo ma la carità. Pagata, a caro prezzo, dal ceto medio che dovrà continuare ad impoverirsi per pagare Imu e balzelli vari. Mentre i poveri alla fame useranno la carità non per rilanciare i consumi interni, troppo cari, ma per acquistare prodotti scadenti, d'importazione, importati ed a rischio salute. Era patetico, il compagno trilateralista Santoro (seguace dell'Annunziata, evidentemente), quando spiegava che si devono abbassare le tasse sui lavori di ristrutturazione. Peccato che chi paga l'Imu non abbia poi i soldi per le ristrutturazioni, neppure se detassate. Ma a Santoro questi particolari sfuggono, dall'alto dei suoi milioni. E si trova in buona compagnia, tra il compagno merkelizzato Cofferati ed il vuoto pneumatico del sindaco di Alessandria. Perché invitare in tv un politico che nulla ha da dire se non luoghi comuni? Una banda di compagni anestetizzati, dove il povero Vauro appare sempre più fuori luogo con i suoi tiramenti veterocomunisti.

giovedì 2 maggio 2013

Una birra al pub o un partito peronista italiano?

Quando un movimento politico diventa solo oggetto di ironia, di satira o, ancor peggio, di tenera presa per i fondelli, vuol dire che è finito. Su Libero, per due giorni consecutivi, è stato celebrato un dolce funerale dei rimasugli di quella che fu la destra (più o meno sociale) italiana. Veneziani (benché sia editorialista del Giornale), Cardini, Besana. Senza invettive, senza cattiverie. Ricordando le responsabilità di Fini che, tuttavia, non cancellano le colpe di un'intera classe politica che ha avuto paura della cultura perché temeva di dover sfogliare un libro. Che aveva paura di collocare qualche esponente d'area competente nei ruoli fondamentali perché terrorizzata all'idea di una concorrenza interna. D'altronde ci si può affidare, ora, ad una classe politica che non è in grado (o non vuole, perché non fa comodo) di risolvere la questione della ricchissima eredità immobiliare di An? Ovviamente no. Ed allora bisogna ripartire. Da altro, da altri. Ricominciando dalla cultura e dalle idee, suggerisce Besana. Giusto. Peccato che le idee e la cultura siano già una peculiarità di tanti gruppi e centri studi in tutta Italia che vengono sistematicamente ignorati proprio da Libero. La base per una nuova classe dirigente, benché ignorata da molti, esiste già. Bisogna metterla in rete. E bisogna passare dall'analisi alla proposta politica. Andando a rappresentare, ad esempio, i 6 milioni di disoccupati veri italiani. Non i 3 milioni ufficializzati dall'Istat, ma quelli reali. E preparandosi alla sfida del prossimo anno, quella delle elezioni europee. Perché è a Bruxelles che si decidono le sorti dei Paesi europei, Italia compresa. E non si può continuare a spedire al Parlamento europeo i soliti vecchi dinosauri ormai bolliti oppure i traffichini e trafficoni che utilizzano il mega stipendio per sistemare le proprie vite da precario senza arte né parte. A Bruxelles devono andare persone preparate, qualificate, capaci di investire per la politica di area le ingenti risorse a disposizione. Studiare, studiare e ancora studiare. Per offrire alternative credibili, per capire - ad esempio - come applicare una ricetta peronista alla situazione italiana. Un movimento che sappia interpretare la rabbia di un Paese allo stremo ma che sappia anche indirizzarla verso progetti realizzabili. Oppure si può continuare a far finta di niente. Pensando che la politica sia ricordare, su facebook e qualche volta in piazza, i camerati assassinati o scomparsi per ragioni di età, di incidenti stradali e di malattia. Grandi necrologi per nascondere piccolissime analisi, grandi idee del passato per nascondere il vuoto attuale. Perché ordinare una birra al pub e brindare con un "sieg heil" è più facile di una proposta su come rilanciare una cultura alternativa o un'economia depressa.